L’ultima idea proposta dall’amministrazione USA per proteggere il commercio interno dalle importazioni massive dalla Cina, che consta di tassare i transiti dei mercantili nei porti statunitensi se di fabbricazione cinese, non sta andando giù all’industria dei trasporti marittimi.
Pazienza – si fa per dire – quando la tassazione vuole colpire le merci prodotte in Cina, ma tassare il vettore perché utilizza navi uscite da cantieri asiatici pare troppo e, per altro, indiscriminato: la cantieristica navale cinese, ad oggi, sforna più dell’80% delle grandi portacontainer varate, rendendo chiaro che qualunque compagnia di navigazione ha in servizio navi (o ne ha in consegna) di provenienza cinese.
Senza entrare nel merito del perché, a partire dagli anni ’90 del Novecento, la cantieristica di Pechino abbia conquistato una così grande quota del mercato – manodopera a basso costo? Probabile, ma bisognerebbe rivedere anche come si sono mossi i cantieri di casa nostra – la mossa intende, forse, obbligare non solo i produttori e gli importatori, ma anche le stesse compagnie di navigazione marittima a mettere i motori indietro tutta.
Uno degli scenari che si leggono però dalle reazioni interne del settore – e dalle mosse industriali di alcune compagnie – è, sì, quello di un’inversione di rotta, ma verso altri lidi.
Certo, il mercato degli USA non verrà abbandonato in massa, come non lo sarà quello europeo, tuttavia non è detto che la mossa della Casa Bianca, qualora messa in atto, non favorisca la crescita di alcuni mercati alternativi – leggi BRICS.
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La proposta ventilata, assieme agli ormai svariati pacchetti di dazi sulle merci, da Washington è questa: far pagare ad ogni nave varata in un cantiere cinese, a prescindere dalla compagnia per la quale presta servizio o dalla quale è posseduta, 1 milione di dollari a singola chiamata nei porti delle coste U.S., più 500mila dollari a chiamata per l’armatore.
Un discreto sovraccarico dei costi operativi per poter sbarcare merci negli Stati Uniti, disgiuntamente da che cosa la nave stia trasportando.
Una prima reazione significativa è arrivata dal CEO di MSC – Mediterranean Shipping Company, Soren Toft, alla TPM25 di Long Beach: come riporta il Journal Of Commerce, il manager di quella che è ad oggi la più grande compagnia di Shipping al mondo ha infatti dichiarato che l’eventuale entrata in vigore di un simile provvedimento costringerebbe l’azienda a rivedere drasticamente i tonnellaggi di merci oggi trasportati verso le coste americane, in quanto alcune rotte diventerebbero ‘impraticabili’, nel senso di insostenibili economicamente.
Lo Shipping si ri-orienta
Dunque, l’idea che potrebbe delinearsi all’orizzonte è quella di un ri-orientamento delle rotte: d’altronde, lo Shipping non si è fermato, ma si è adattato, nemmeno con la quasi totale impraticabilità del Mar Rosso – ergo, ha già l’esperienza per farlo.
Un po’ come dei girasoli (dove ‘il sole’ è rappresentato dal margine di profitto sulle rotte), le grandi sorelle dello Shipping potrebbero semplicemente puntare altrove le prue: può sembrare uno scenario improbabile e dalle conseguenze commerciali enormi, foriere di ritardi e rarefazioni dei servizi verso occidente, ma, come sperimentato per il Mar Rosso e la pandemia prima, queste situazioni non necessariamente fanno male alle compagnie di navigazione ed agli spedizionieri.
Un segnale, di per sé, scisso, ma cronologicamente a tempo, arriva da Maersk, che ha fatto sapere alla stampa specializzata di settore di aver sbloccato un nuovo investimento da 5 milioni di dollari sui porti indiani, che stanno assumendo un ruolo sempre più importante, consolidandosi come hub di transhipment per le merci in uscita dalla Cina e dirette verso il continente americano. Ricordiamoci che, soprattutto da dopo l’istituzione delle sanzioni alla Federazione Russa, ‘continente americano’ vuole dire anche Messico, Perù, Colombia, Ecuador, Argentina e Brasile, Paesi nei quali è Pechino a stare investendo da anni per costruire, quasi da zero, un’infrastruttura portuale e retroportuale competitiva.
Poi, c’è la stessa India, che si è fatta avanti nel ruolo del transhipment per ben altri obiettivi: sotto la spinta ultranazionalista del premier Narendra Modi intende affermarsi essa stessa come grande mercato di sbocco per le merci.
Altra compagnia che ha istituito nuovi collegamenti diretti tra l’Asia e l’America Latina e del Sud è la francese CMA CGM, assieme alla già citata Maersk.
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Intanto, ritardi sulle rotte Asia-Europa
Sullo sfondo di questa tenzone tra mondo armatoriale mercantile e Casa Bianca, c’è una terza incomoda, ossia l’Europa, che in questo scenario potrebbe trarne giovamento o, al contrario, vedersi anch’essa preferire mercati emergenti più aggressivi.
Di fatto, il mercato dello Shipping soffre di una continua volatilità, in buona parte mantenuta alta da problemi di congestioni e ritardi sia nei porti cinesi (Shanghai/Ningbo e Qingdao), sia in quelli europei (Le Havre, Rotterdam e Anversa per primi).
Si tratta di congestioni dovute a condizioni operative nei porti asiatici, spesso di natura meteorologica, ma che hanno ormai una ripercussione sistematica sul mondo dello Shipping verso Occidente per via degli enormi volumi che questi porti debbono gestire.
Stando ad un report Linerlytica, che osserva proprio i tassi di congestione nei porti mondiali, circa il 10% di tutta la capacità globale marittima sta subendo ritardi per i colli di bottiglia che si verificano negli scali asiatici ed europei.