In attesa di capire come si stabilizzeranno le nuove relazioni commerciali tra Stati Uniti e Cina – ma si potrebbe dire tra USA e resto del mondo -, c’è un’altra catena di approvvigionamento e distribuzione che osserva lo svolgersi degli eventi con attenzione: è quella farmaceutica.
Proprio la dualità tra Washington e Pechino è cruciale per l’industria globale del Pharma, che vede nella prima una vorace importatrice e nella seconda una produttrice su scala mondiale.
È quindi chiaro che un cambiamento netto nelle relazioni di scambio tra le due superpotenze avrebbe delle ripercussioni significative sulla supply chain del Pharma, influenzando la disponibilità di farmaci e principi attivi (API) ben oltre i confini statunitensi.
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La dipendenza farmaceutica degli Stati Uniti
Gli Stati Uniti soffrono di una dipendenza cronica dalle importazioni di prodotti farmaceutici e principi attivi di base: l’industria domestica, infatti, non è in grado di soddisfare il fabbisogno interno da tempo, con l’ultima azienda produttrice di ingredienti primari per la penicillina che ha chiuso i battenti nel 2004 e una presenza di aziende, sì, tra le più note al mondo (si pensi a Pfizer), ma fortemente specializzate nella produzione e sviluppo di farmaci per cure molto specifiche e di nicchia.
La maggior parte dei prodotti farmaceutici smerciati negli Stati Uniti e, soprattutto, dei precursori (o API, Active Pharmaceutical Ingredients) utilizzati dalle aziende con sede negli USA provengono da Pechino e dintorni.
Nel 2020, la Food and Drug Administration stimava che l’80% dei principi attivi utilizzati nei farmaci venduti negli Stati Uniti provenisse dalla Cina – comprendendo il 95% dell’ibuprofene e il 45% della penicillina – mentre tra il 40 e il 50% di tutti i farmaci generici distribuiti negli Stati Uniti arriva dalle aziende farmaceutiche indiane, le quali dipendevano a loro volta dalla Cina per quasi il 70% dei principi attivi che a loro volta necessari.
La Cina, insomma, la fa da padrona a livello planetario, al punto che già nel 2020, durante il primo mandato Trump alla Casa Bianca, un’opzione paventata da Pechino per rispondere ai dazi allora introdotti fu quella di tagliare le forniture di farmaci e API a Washington, mandando in in crisi anemica immediata il sistema sanitario e ospedaliero USA.
Si sarebbe però trattato di una mossa autolesionistica, in quanto anche i produttori cinesi avrebbero perso il loro cliente numero uno e, per questo, mai messa in pratica.
Gli USA però non dipendono solo dall’Asia: anche l’Europa, che pure ha perso la sua posizione dominante nel settore Pharma sempre in favore di Cina e India, è un suo fornitore e, in particolare, lo è l’Italia, che nel 2024 ha esportato 10 miliardi di euro di prodotti farmaceutici oltre oceano.
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Tensioni commerciali, effetti sulla Supply Chain Pharma
Le tariffe volute da Washington sulle importazioni di prodotti cinesi possono avere un effetto dirompente sul mercato dei farmaci statunitense, portando i prezzi a pesanti aumenti e rarefacendone la presenza per quanto riguarda i generici, dato che i produttori di questi ultimi operano con margini di profitto già ridotti rispetto alle sorelle di Big Pharma. La dinamica potrebbe però andare ben oltre l’America, innescando un domino internazionale.
Come detto, un’interruzione delle forniture cinesi potrebbe portare a carenze di farmaci negli Stati Uniti, aggravando ulteriormente una situazione già critica. Nel 2022, la Cina ha esportato negli Stati Uniti circa 10 miliardi di dollari in forniture mediche e 7,4 miliardi in derivati chimici, che includono gli ingredienti per i farmaci e per gli antibiotici.
Dunque, se Pechino dovesse, per ritorsione, tagliare queste esportazioni verso l’America, quest’ultima potrebbe rapidamente rimanere sfornita; più realisticamente, dato che le aziende cinesi non saprebbero a chi vendere le stesse quantità di prodotti, i prezzi dovrebbero rincarare per assorbire i dazi voluti dalla Casa Bianca: non esattamente un regalo ai pazienti statunitensi, dato che nel 2023 le aziende farmaceutiche sono già state messe sotto la lente delle corti federali per il lancio di farmaci più cari del 35% rispetto al 2022, cui si è sommato un rincaro medio del 4,5% nel 2024 e aumenti ulteriori fino al 9% su 250 farmaci dal primo gennaio di quest’anno – come riportato da Reuters su dati della società di ricerca sanitaria 3 Axis Advisors.
La risposta di Big Pharma è sempre stata la stessa, ossia che gli aumenti erano necessari a finanziare la ricerca e a coprire i costi di produzione, sempre più alti. Paradossalmente, i dazi andrebbero a gettare benzina sul fuoco.
Tuttavia, c’è anche un’altra ipotesi in campo: cinque anni fa, l’allora speaker della Camera Nancy Pelosi, assieme al senatore Marco Rubio, introdusse una proposta di legge volta a controllare le dinamiche del mercato farmaceutico negli USA, di fatto stimolando l’idea di un reshoring della manifattura medica.
Se Washington, cui le risorse e la capacità di ricerca non mancano, dovesse raggiungere una maggior quota di indipendenza rispetto alle importazioni di farmaci e API dall’estero, questo comporterebbe delle onde d’urto sulle rive del Fiume Giallo, costringendo la Supply Chain Pharma made in China a ricollocarsi parzialmente su altri mercati (e l’Europa potrebbe essere una candidata).
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E l’Europa?
Di fatto, anche l’Unione Europea dipende fortemente dalle forniture farmaceutiche dall’Asia, e sempre di Cina e di India si parla.
A guardare le statistiche sui farmaci la UE potrebbe sembrare messa meglio degli USA, ma non bisogna fermarsi alla superficie.
Se le importazioni farmaceutiche nell’Unione europea provengono principalmente dagli Stati Uniti (35%), dalla Svizzera (34%), dal Regno Unito (9%), dalla Cina (5%) e da Singapore (4%), il vero problema è costituito, anche nel caso dell’industria Pharma di Brussels, dai principi attivi.
Circa l’80% dei precursori utilizzati nella produzione farmaceutica dell’UE proviene infatti da paesi terzi: secondo una statistica della European Fine Chemicals Group, nel 2021 le 10 principali molecole impiegate nella produzione di farmaci di largo smercio per i mercati di Italia, Spagna, Germania, Francia e UK erano importate per l’80% del fabbisogno, con l’eccezione negativa del paracetamolo (importato al 100%) e quella positiva dell’acido acetilsalicilico (l’Aspirina, per capirci), importato per meno del 20%.
Nemmeno a dirlo, il 74% dei precursori arrivava dall’Asia, che annoverava già allora la Cina come produttrice del 70% di tutte le molecole messe in commercio nel continente asiatico.
Secondo Eurostat, le importazioni di medicinali nella UE sono aumentate del 250% nel ventennio 2002-’22, passando da 32 miliardi di euro a 112 miliardi di euro; tuttavia, la bilancia commerciale è stata positiva per l’Europa, perché le esportazioni sono cresciute ben di più – del 474%, balzando dai 50 miliardi di euro del 2002 ai 287 miliardi di euro del 2022.
Gli Stati Uniti sono proprio il principale mercato di sbocco per i farmaci europei: tre anni fa rappresentavano da soli un terzo degli ordini per l’industria farmaceutica del Vecchio Continente, con un disavanzo a favore di quest’ultimo di 54 miliardi di euro.
Nuove politiche commerciali da parte di Washington sarebbero apertamente mirate a riequilibrare questa bilancia, facendo rapidamente intuire quanto l’impatto sarebbe pesante per Brussels e per la sua industria farmaceutica, che rimarrebbe stritolata tra le mosse americane e la Cina monopolista delle forniture.