Il cambio di rotta sui commerci e l’arrivo dei primi dazi voluti dagli Stati Uniti sta avendo degli effetti immediati sulle dinamiche delle catene di fornitura globali.
Grandi società di analisi, come Blue Yonder e Fluent Commerce, stanno delineando un quadro complesso degli effetti che queste misure avranno sulle imprese e sulle catene di approvvigionamento in Occidente e in Europa in particolare.
Non è sicuro, infatti, che Washington eriga un impianto tariffario simile a quelli già imposti a Canada, Messico e Cina, ma è palese che bisogna essere pronti a tutto: anche la stessa incertezza è una condizione contro la quale prendere delle contromisure.
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Le supply chain industriali interessate
Guardando dunque all’Europa, secondo gli analisti i primi a preoccuparsi per le nuove tariffe imposte dagli Stati Uniti devono essere i produttori di acciaio e alluminio del Regno Unito e dell’UE, che saranno particolarmente colpiti dai dazi americani.
Infatti, già le tariffe annunciate il 1° febbraio del 25% sui beni provenienti dal Messico e dal Canada, più l’ulteriore tassa del 10% sulle importazioni dalla Cina, rappresentano un colpo potenzialmente devastante per questi settori.
Washington importa massivamente acciaio dalla Cina (e dall’Europa), ma anche lavorazioni finite dell’acciaio come veicoli e componenti automobilistici da Canada e soprattutto Messico: le tariffe doganali avranno un effetto deterrente sugli esportatori, che potrebbero ripiegare sul mercato della UE. Intanto, l’aumento dei costi delle materie prime porterà a un incremento dei prezzi lungo tutta la filiera produttiva e l’Europa potrebbe trovarsi assediata da nuovi competitor in grado di proporre acciaio e prodotti derivati a minor costo per via delle differenti condizioni lavorative nei Paesi di origine (questo vale soprattutto per l’Asia) e, allo stesso tempo, essere minata nella sua base di commercio verso l’estero dai possibili dazi, annunciati, ma non ancora confermati, nei suoi confronti dall’amministrazione americana.
L’altra a subire in particolare modo l’aggressività dei dazi doganali USA è l’industria automobilistica europea: già sotto pressione per una serie di cause, tra le quali spiccano la concorrenza cinese, il ritiro dei sussidi per i veicoli elettrici (EV) e la transizione alla regolamentazione europea sulla sostenibilità, si trova ora di fronte ad un ulteriore scoglio da superare e lo deve affrontare nel momento storico di massima crisi di tutto il Dopoguerra.
Le tariffe minano seriamente i volumi di vendita negli Stati Uniti, portando le automobili Made in UE a costare decisamente di più, perdendo competitività, e di accelerare i cambiamenti nella produzione verso mercati alternativi. Soprattutto i produttori di veicoli a combustione interna (i cosiddetti ICEV) saranno particolarmente vulnerabili.
Le reazioni delle imprese britanniche ed europee
L’incertezza creata dalle condizioni commerciali internazionali ha portato le imprese sia del Regno Unito, sia dell’UE a preparare dei piani ‘B’: ci sono, ad esempio, aziende che stanno considerando la strada, di certo rischiosa, di accumulare beni per fare ‘cuscinetto’ e mitigare le possibili interruzioni delle forniture.
Si tratta di una strategia associata a forti rischi logistici e finanziari, tanto’è vero che molte altre stanno investendo in strumenti che consentano loro di godere di una maggiore visibilità in tempo reale per ‘leggere’ meglio tra le fluttuazioni della domanda e, di conseguenza, dell’inventario e della catena di approvvigionamento tutta.
Di fatto, la maggior parte delle industrie sono di fronte ad una situazione che offre solo soluzioni spinose, che si tratti di gestire e assorbire gli aumenti di costo alla produzione, oppure di rilocalizzare mercati di sbocco e produzioni, con la quasi inevitabile conseguenza, in entrambe i casi, di far lievitare i prezzi al consumo.
Con l’aumentare delle incertezze, molti board direttivi si stanno ancor più rapidamente rivolgendo a soluzioni tecnologiche per fare fronte a costi e problemi legati alla gestione della manodopera: paradossalmente, lo scenario che si va delineando, già a svantaggio di quella società civile che si troverà a fare i conti con rincari generalizzati, spalanca le porte ad applicazioni dell’AI e dell’automazione industriale su vasta scala ancor più aggressive di quanto preventivato.
In particolare è l’intelligenza artificiale che dovrebbe ricevere un boost notevole, in quanto i manager aziendali cercheranno in essa uno strumento di analisi dei dati in tempo reale per capire come aggiustare, giorno per giorno, le strategie.
Gli unici settori a non temere più di tanto i dazi è quello del lusso e del fashion, la cui clientela ci si aspetta sia perfettamente in grado di assorbire i rincari che ne potrebbero derivare, senza colpo ferire.
Al di fuori della UE: chi diversifica e chi soffre
Il contesto di crescente incertezza commerciale non riguarda certo soltanto la vecchia Europa: tutte le aziende che operano su scala globale stanno adottando delle misure per diversificare le proprie catene di approvvigionamento.
Ad avere il mal di testa sono, per esempio, quelle filiere nazionali altamente specializzate – come l’industria dei semiconduttori di Taiwan – che sono in una posizione notevolmente esposta in caso di ritorsioni commerciali globali.
La specializzazione internazionale è fondamentale per molte industrie, e l’inaridirsi di questa o quella catena di fornitura potrebbe avere conseguenze devastanti: se chi si approvvigiona oggi a Taiwan per i semiconduttori dovesse sviluppare delle soluzioni alternative, per l’isola asiatica sarebbe un colpo mortale.
Guardando all’interno degli USA stessi, aziende come Stanley Black&Decker, nota produttrice di strumenti edili e per il fai-da-te, ha già fatto sapere di avere allo studio un mix di azioni legate alla gestione della Supply Chain e dei prezzi al consumatore per mitigare i contraccolpi dovutosi ai dazi: essa importa dalla Cina verso gli Stati Uniti, qualcosa come 900 milioni di dollari in merci e materiali e preventiva un sovrapprezzo monstre per le proprie operazioni di circa 90 milioni di dollari. La società, pur con l’attuazione di strategie di mitigazione, suppone di dover far fronte a costi extra compresi tra i 10 e i 20 milioni dollari: motivo in più per tagliare la produzione in Cina, visto anche il calo della domanda di strumenti di questo tipo già iniziato nella seconda metà del 2024.
Un altro esempio significativo è rappresentato dal colosso dei giocattoli Mattel, azienda statunitense che sul mercato di casa vende la metà della propria produzione e che, sulla scorta degli sconvolgimenti subiti dalla Supply Chain, ha intrapreso da alcuni anni un programma di diversificazione della produzione, riducendo la dipendenza dalla Cina del marchio.
Nel consueto discorso agli azionisti dell’ultimo trimestre 2024, il presidente e CEO di Mattel, Ynon Kreiz, ha annunciato che la quota di giocattoli prodotta in Cina sarà pari a meno del 40% entro il 2025 – quando la media del settore si aggira sull’80%. Stando ai dati aziendali, già nel 2024, questa diversificazione ha generato risparmi per 83 milioni di dollari, con ulteriori 60 milioni di risparmi previsti entro la fine del 2025.
Più nello specifico, Mattel ha diversificato la produzione in sette diversi paesi, riducendo la propria esposizione tariffaria come azienda statunitense importatrice dalla Cina per il 20% della propria produzione e per il 10% per quanto riguarda le importazioni dal Canada.