Il vento di cambiamento che soffia sulle relazioni commerciali tra le principali potenze mondiali sta ponendo un dilemma strategico all’Italia ed alle sue industrie, vale a dire: che fare qualora le esportazioni UE verso gli Stati Uniti dov’essere essere oggetto di tassazioni doganali di un certo peso?
Molte esportazioni europee verso i mercati degli Stati Uniti recano infatti la dicitura Made in Italy, dunque il nostro Paese – e la sua filiera logistica e produttiva – sono tra le più interessate da potenziali cambi di equilibrio commerciali tra Brussels e Washington.
Inoltre, nel caso in cui tutto ciò prenda corpo, gli scenari cui prepararsi sono molteplici e decisamente fluidi: un conto, infatti, è se la UE dovesse riuscire a contrattare compatta un accordo nei confronti delle proprie merci e degli acquisti dagli USA, tutta un’altra storia se, invece, i 27 membri dovessero trattare ognun per sé.
Il governo italiano ha buoni rapporti sia con Brussels che con Washington, ma si trova a giocare una partita non facile, nella quale avere dei paracadute è imprescindibile. Cosa potrebbe significare per l’Italia l’arrivo di dazi sulle proprie merci in partenza verso gli USA? Quali settori merceologici e produttivi sarebbero più colpiti?
Soprattutto, come compensare le eventuali perdite nel saldo commerciale tra le due nazioni e mantenere in equilibrio la bilancia import/export complessiva del Bel Paese?
Relazioni Import/Export con gli USA
L’Italia ha una relazione commerciale significativa con gli Stati Uniti, che rappresentano uno dei principali mercati di sbocco per i prodotti italiani.
In un’Europa che Eurostat ha fotografato in attivo nella bilancia commerciale 2023 con gli USA (503 miliardi di euro il valore delle esportazioni, 347 miliardi le importazioni da Washington), il nostro Paese è infatti terzo, dopo Germania e Francia, per esportazioni oltreoceano.
Nel 2023, le esportazioni italiane verso gli USA hanno raggiunto i 67,3 miliardi di euro, mentre le importazioni sono state di 25,2 miliardi di euro, secondo i dati Istat. Questo ha portato a un saldo commerciale positivo, non trascurabile, per l’Italia di 42 miliardi di euro.
Nel 2024, il valore delle esportazioni italiane verso gli Stati Uniti è leggermente flesso a 66,4 miliardi di euro, rappresentando il 10,7% dell’export nazionale totale. Sebbene si tratti di dati in valore nominale (che non tengono conto dell’erosione inflazionistica), negli ultimi 10 anni l’Italia ha di fatto sempre visto crescere le proprie esportazioni oltreoceano.
Andando a vedere che cosa l’Italia esporta in America, nel 2024 (periodo Gennaio-Ottobre, dati Info e Mercati Esteri dell’Osservatorio Economico del Governo) vi si trovano ingenti ordini per macchinari e apparecchiature industriali, poco meno di 10 miliardi e mezzo di euro che rappresentano il 19,5% del totale delle esportazioni italiane negli USA, seguiti dal balzo avanti degli articoli farmaceutici, chimico-medicinali e botanici, passati dal 14,3% del 2023 al 15,2% del 2024.
Vengono poi i mezzi di trasporto (12,9%, 6,9 miliardi di euro decisamente in calo rispetto agli 11,5 miliardi del 2023), il comparto alimentare, comprensivo di bevande e tabacco, (12%, 6,4 miliardi), i prodotti tessili, l’abbigliamento, le pelli e gli accessori (8,6% per un valore di quasi 4,6 miliardi di euro) e i prodotti di altre attività manifatturiere (7,9%).
D’altra parte, l’Italia importa dagli Stati Uniti a sua volta prodotti chimici e farmaceutici, macchinari e apparecchiature industriali, prodotti agricoli, prodotti energetici, veicoli e componentistica per questi ultimi.
Dazi verso la UE e l’Italia: chi verrebbe colpito
Relazioni commerciali inasprite con gli Stati Uniti, come si intuisce, volte a riequilibrare dal lato di Washington il rapporto importazioni/esportazioni, potrebbero avere diverse conseguenze negative l’Unione Europea e per l’Italia in particolare. Il nostro, infatti, è il quarto Paese al mondo per esportazioni – come ha affermato il presidente di Confindustria Emanuele Orsini nei suoi appelli alla cautela dalle pagine dei quotidiani nazionali -e si può quindi affermare che l’economia italiana si regga in buona parte su di esse: sempre Confindustria ha recentemente ricordato che il valore delle nostre esportazioni si aggira sugli oltre 600 miliardi di euro in prodotti e che l’obiettivo nazionale sarebbe la soglia dei 700 miliardi di euro. I dazi potrebbero dunque essere un ostacolo serio, non soltanto per l’effetto deterrente, ma anche perché, sommandosi all’inflazione, eroderebbero il guadagno delle imprese italiane – anche producendo di più, si rischierebbe di incamerare comunque meno di oggi.
Intanto ci sono alcuni settori che iniziano a farsi in conti in tasca. Il primo è quello automobilistico, in quanto, a livello europeo, si esportano una grande quantità di veicoli negli Stati Uniti: nel 2023, l’UE ha venduto veicoli per più di 90 miliardi di euro agli USA.
Nel mirino dei dazi ci sarebbe poi l’industria siderurgica europea e le sue produzioni di acciaio e alluminio: Eurofer, l’associazione di rappresentanza dell’industria siderurgica Ue, stima che 3,7 milioni di tonnellate di acciaio potrebbero non imbarcarsi più per gli States a causa dei dazi.
Preoccupati fortemente lo sono anche i produttori di macchinari e apparecchiature industriali e le aziende farmaceutiche europee, che esportano una quantità significativa di prodotti negli Stati Uniti.
Proprio l’Italia è chiamata in causa se si parla di prodotti farmaceutici: gli Stati Uniti sono un mercato ghiotto e non autosufficiente nella loro produzione, tanto che, nel 2024, le esportazioni farmaceutiche sono balzate al secondo posto tra quelle italiane verso Washington, con un valore di poco inferiore ai 10 miliardi di euro.
Nel campo alimentare e delle bevande, l’Italia è anche uno dei maggiori esportatori di vino negli Stati Uniti e l’allarme dell’Unione Italiana Vini riguarda proprio una possibile penalizzazione maggiore rispetto ad altri Paesi concorrenti.
Per il nostro sistema-Paese uno shock nelle relazioni commerciali con l’America avrebbe per forza di cose un impatto notevole: leggendo i dati Istat e dell’Osservatorio Economico del Governo, nel 2023 e nel 2024 Washington è stato il secondo mercato di sbocco per l’export italiano, dietro solamente alla Germania (74,6 miliardi di euro nel 2023, 71 miliardi nel 2024 contro 67,3 e 66,4 miliardi rispettivamente), davanti alla Francia (52,5 miliardi di euro nel 2024) e ben oltre la Cina (‘appena’ 12,8 miliardi di euro scarsi di esportazioni l’anno appena passato).
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Italia: ricadute regionali
Intanto, un’indagine Prometeia ha dipinto il quadro delle esportazioni nazionali verso gli USA spacchettato regione per regione e provincia per provincia. Di fatto, si tratta di una mappatura delle aree più suscettibili nei confronti di un brusco cambio delle politiche commerciali tra Italia e USA.
Stando alle percentuali di sbocco rappresentate dagli Stati Uniti per le produzioni regionali italiane, la realtà più in bilico è la Liguria, con Genova in particolare per via dell’esposizione del suo porto; negli scenari paventati (un dazio lineare del 10% su tutti i prodotti o un inasprimento del 10% dei prodotti già oggi tassati) la regione costiera del nord vedrebbe interessato l’11% delle sue esportazioni, che verso gli USA rappresentano un terzo del totale regionale.
Come detto, a rendere vulnerabile il capoluogo ligure è il porto, dal quale transita la maggior parte delle esportazioni nazionali verso l’America, unitamente ai settori della cantieristica navale e dei prodotti petroliferi raffinati, che sarebbero oggetto di penalizzazioni.
La seconda regione più esposta risulta essere il Molise, con l’11% delle esportazioni verso gli USA (un quarto di quelle regionali) ad essere oggetto di dazi; colpite prevalentemente industrie del settore chimico e automotive. Seguono poi Basilicata, Sardegna, Campania, Umbria, Emilia Romagna e Lombardia.
Queste ultime due regioni, sebbene in fondo alla classifica dell’esposizione diretta, devono fare attenzione: infatti vedrebbero messi in difficoltà i settori meccanico, automotive, ceramico, chimico-farmaceutico e agroalimentare, nel primo caso, e della meccanica e della moda, nel secondo (per un valore, solo quest’ultimo, di quasi 2 miliardi di euro); oltre a costituire intuitivamente il motore industriale del Paese, i dati Istat 2023 le vedevano primeggiare per valore delle esportazioni verso gli USA: la Lombardia con 14,2 miliardi di euro di esportazioni e l’Emilia-Romagna con 10,4 miliardi di euro.
All’interno delle regioni ci sono poi alcune province chiamate ad assorbire un colpo maggiore: se Genova è tra le prime per via dell’indotto portuale, la Sardegna annovera Nuoro e Sassari, che dedicano oltre il 30% delle loro produzioni lattiero-casearie all’export oltreoceano.
Nell’elenco stilato da Prometeia si trovano anche Isernia, per i prodotti chimici, Grosseto, per l’agroalimentare, e Belluno, per il settore degli occhiali, tallone di Achille di un Veneto che, per il resto, è tra le poche realtà più riparate dall’onda d’urto dei dazi (sebbene nel 2023 fosse la quarta regione italiana per valore delle esportazioni verso Washington, con 7,6 miliardi di euro).
Quali alternative per l’Italia? I mercati internazionali extra UE
Di fronte a questa serie di scenari possibili, nessuno dei quali particolarmente roseo, l’Italia sta prendendo in considerazione nuovi mercati internazionali, tutti extra UE, per l’export.
Il governo avrebbe identificato 14 sbocchi sui quali diversificare l’export rispetto ad oggi, tra i quali spiccano l’India, considerata una delle destinazioni più promettenti per l’export italiano, il
Messico, altro mercato emergente con un forte potenziale di crescita, l’Indonesia, nazione in rapida crescita economica e con una domanda crescente di prodotti italiani, e, soprattutto per i settori militare e del lusso, i Paesi del Golfo come gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita.
Inoltre, l’Italia potrebbe cercare di rafforzare le relazioni commerciali con altri paesi asiatici, africani e sudamericani per diversificare ulteriormente i propri mercati di sbocco e ridurre la dipendenza del saldo import/export dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea.
Uno storico mercato come quello giapponese è, invece, considerato già saturo.
La necessità di trovare alternative per le esportazioni è primaria, in quanto l’arrivo di eventuali dazi non sarebbe compensabile in modo ‘diretto’, ossia agendo sui prezzi al consumo delle merci o tagliando a livello di forniture, in quanto l’aumento dei costi di produzione ha già saturato ogni margine.
In conclusione, l’Italia si trova a dover cercare di salvare le relazioni commerciali con gli Stati Uniti, ma dovendosi muovere molto rapidamente nello sviluppare nuovi mercati internazionali per garantirsi, se non la crescita, almeno la stabilità economica a lungo termine.
Per la Supply Chain tutto questo è sinonimo di nuove ramificazioni e di potenziamento di altre, già esistenti, ma finora secondarie: un’operazione che può anche avere risvolti interessanti, ma da inserire nel quadro di un Mediterraneo ancora in sofferenza per l’asfissia di Suez e per lo spostamento di molte rotte commerciali verso l’emisfero oceanico indo-asiatico e latino americano.