Quello dei dazi che l’amministrazione statunitense sta proclamando senza sosta da ormai due mesi a questa parte, è uno scenario in rapido e costante mutamento – l’incertezza che genera sui mercati e nelle relazioni internazionali sembra proprio una parte consistente della strategia commerciale e politica del nuovo inquilino della Casa Bianca.
Guardando allo strumento in sé, l’amministrazione comandata da Donald Trump ha introdotto un sistema tariffario ambizioso e complesso, destinato, per come è stato presentato, a ridefinire le dinamiche del commercio globale.
Un commercio globale la cui bilancia è attualmente a sfavore degli USA, in parte davvero e in parte secondo le considerazioni del nuovo corso di Washington, tanto da non aver esitato a definire “Giorno della Liberazione” il termine fissato per il 2 aprile per l’entrata in vigore di un pacchetto di tassazioni sull’import negli Stati Uniti.
Proprio il 2 aprile rappresenta un momento cardine per l’attuazione di nuovi dazi reciproci e per la revisione delle relazioni commerciali degli Stati Uniti con i principali partner: l’obiettivo dichiarato dalla Casa Bianca è porre fine a uno “status quo insostenibile”, ma queste misure hanno immediatamente sollevato preoccupazioni sia negli ambienti finanziari a Wall Street, sia presso l’industria.
Tra i più preoccupati ci sono i porti americani, che potrebbero affrontare un aumento significativo del carico operativo – come anche gli aeroporti, con l’eventuale revoca delle esenzioni ‘de minimis’ che li costringerebbe allo sdoganamento di una miriade di minuscole merci in entrata.
Il sistema dei dazi: uno sguardo paese per paese
Sebbene non sia facile stare dietro ai continui ‘statement’ del Presidente statunitense, cerchiamo di delineare una panoramica delle tariffe già entrate in vigore o solo minacciate.
Mettendo assieme le informazioni reperibili, salta all’occhio come gli Stati Uniti abbiano messo in atto una strategia tariffaria mirata, articolata e complessa, con l’intento di proteggere settori strategici e di riequilibrare quelle relazioni commerciali percepite come inique da Washington.
Per prima viene la grande competitrice degli USA, ossia la Cina: attualmente è in vigore una tassazione pari al 20% del valore sulle importazioni di Pechino, frutto del rincaro di quella preesistente voluta dallo stesso Trump e sopravvissuta durante il mandato di Joe Biden; si tratta di un dazio orizzontale, che colpisce indistintamente tutto quanto provenga dalla ‘fabbrica del mondo’. La Cina ha reagito imponendo dazi su beni agricoli, automobili, macchinari e prodotti energetici provenienti dagli Stati Uniti, ma in modo più ‘soft’: dal 10 febbraio sono tassati al 15% carbone e GNL americani tra i prodotti energetici, pollo, grano, mais e cotone statunitensi tra quelli agricoli, mentre sono tassati al 10% petrolio greggio e macchinari agricoli, assieme a sorgo, soia, maiale, manzo, frutti di mare, frutta, verdura e latticini.
Proseguendo nella lista di Paesi interessati, dal 4 marzo scorso gli Stati Uniti applicano tariffe del 25%, sui beni, e del 10%, sui prodotti energetici, provenienti dal Canada – eccetto quelli conformi al trattato USMCA. In risposta, dal 13 marzo il Canada ha introdotto contromisure colpendo al 25% i beni statunitensi per un valore complessivo di 29,8 miliardi di dollari, a cui si aggiungeranno ulteriori misure a partire dal 2 aprile. A partire da quella data, il Canada applicherà la stessa aliquota a ulteriori beni per un valore complessivo di 30 miliardi di dollari. In stand-by sino al 2 aprile i dazi che Washington ha già ‘promesso’ sulle importazioni di autoveicoli dal Canada.
Viene poi il turno del Messico, nei confronti del quale sono attive tariffe del 25% sulle importazioni, escludendo sempre i beni conformi all’USMCA. Al momento, il Messico non ha ancora attuato contromisure, ma sta pianificando eventuali azioni future. Anche in questo caso, il 2 aprile dovrebbe ‘sbloccare’ i dazi sul comparto automobilistico.
Arrivando a casa nostra, le tariffe statunitensi già in vigore nei confronti dell’Unione Europea colpiscono acciaio e alluminio (25%), in quanto imposte sui due metalli a prescindere dalla provenienza. Trump ha minacciate nuove tariffe sul settore auto (anche qui, del 25%) e, in caso di ‘ritorsioni’, un dazio ‘monstre’ del 200% sugli alcolici europei. L’UE al momento ha rimandato eventuali misure di ritorsione alla solita data del 2 aprile, in attesa di capire cosa effettivamente farà la Casa Bianca. Stando alle ultime indiscrezioni, potrebbero essere annunciati dazi lineari al 20% nei confronti di tutti i partner commerciali degli USA e non più una tassazione più alta nei confronti dei soli Paesi la cui bilancia commerciale con Washington è particolarmente favorevole (Giappone, Cina, UE nel suo complesso o, comunque, Italia e Germania anche guardando ai singoli Stati).
C’è poi il capitolo Venezuela e, potenzialmente, legato ad altre nazioni ritenute poco collaboranti, come Federazione Russa e Iran: in questo caso, Trump ha paventato un meccanismo più subdolo per colpire le economie di questi Paesi, vale a dire dissuadendo chiunque altro dal commerciarvi. La proposta, infatti, parla di tariffe del 25% su tutti i beni importati da quei Paesi che commercino petrolio o gas con il Venezuela. La decisione sull’attuazione è ancora ferma al gabinetto del presidente.
Guardando ai settori specifici, quelli messi nel mirino sono il siderurgico (acciaio e alluminio), già colpiti da dazi al 25% a prescindere dalla nazione di provenienza e il settore automotive, in attesa del 2 aprile per vedere l’attivazione dei dazi, sempre al 25%, per i veicoli importato da qualsiasi Paese estero. Sono previste ulteriori misure per semiconduttori e industria farmaceutica, ma senza ancora dettagli o deadline precise.
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Ripercussioni sulle politiche commerciali
Le misure adottate e previste dall’amministrazione Trump mirano ad un protezionismo muscolare a vantaggio delle industrie americane (da proteggere o da ricostruire, in alcuni casi) e a riequilibrare gli scambi commerciali, nei decenni sempre più pendenti verso gli acquisti per via della stessa fortissima delocalizzazione attuata dalle aziende americane in primis.
Quel che è chiaro – un piccolo esempio lo si è già avuto con le ‘minacce’ dialettiche sulle contromisure UE – è che una politica commerciale basata sui dazi rischia di provocare infinite reazioni a catena.
I partner commerciali degli Stati Uniti stanno già adottando contromisure mirate, con l’effetto paradossale di alimentare un’escalation tariffaria globale, che, è vero, potrebbe danneggiare in primis proprio le esportazioni statunitensi, aumentando i costi per consumatori e imprese, ma anche quelle dei partner stessi. Inoltre, l’introduzione di dazi basati su criteri di reciprocità o di barriere non tariffarie, come le tasse digitali, complica ulteriormente il quadro.
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Il boomerang sui porti statunitensi
Uno degli aspetti più critici per la logistica internazionale è rappresentato dalle possibili ripercussioni sui porti USA.
Le infrastrutture doganali americane potrebbero non essere in grado di gestire l’aumento esponenziale delle operazioni di controllo e riscossione derivanti dalla massa di beni da sottoporre a dazio.
Per gli scali portuali statunitensi si tratterebbe di un vero e proprio incubo: il sistema tariffario armonizzato degli Stati Uniti, già estremamente complesso con le sue 18.000 voci, rischia di collassare sotto il peso di ulteriori articolazioni.
Lo scenario che si delinea potrebbe rallentare la movimentazione delle merci, con effetti negativi sulla catena di approvvigionamento interna e globale, dunque sull’economia statunitense stessa.
Il nuovo corso della politica commerciale USA, sebbene pensato per rafforzare la competitività americana, espone il sistema economico e commerciale a rischi significativi. Il “Giorno della Liberazione” – come lo ha definito Trump – potrebbe segnare l’inizio di una fase di instabilità internazionale, con i porti americani da osservare come punto nevralgico di un sistema sotto pressione.