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Dazi, anche l’import-export USA fa i conti

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Foto di H P da Pixabay

La nuova amministrazione della Casa Bianca ha adottato una serie di politiche protezionistiche volte innanzitutto a contrastare il dominio della Cina nel commercio globale e a riposizionare gli USA nello scacchiere delle superpotenze globali.

Tra queste misure, spiccano le tariffe imposte ex novo o rafforzate nei confronti delle navi mercantili che battono bandiera cinese e le nuove tariffe sulle importazioni di beni cinesi sul suolo statunitense. Si tratta di politiche che mirano a ridurre la dipendenza degli Stati Uniti dalla Cina e a promuovere, nell’idea di Washington, un ritorno delle produzioni all’interno dei confini nazionali.

Le previsioni in merito ai reali effetti di questa strategia sono però contrastanti e, anche all’interno degli USA, c’è chi teme un effetto boomerang: esiste infatti una discrepanza seria tra i volumi di import ed export dichiarati dagli Stati Uniti e da Pechino.

Quanto importano davvero gli USA dalla Cina?

Un nuovo studio pubblicato dagli economisti della Federal Reserve Bank di New York suggerisce che le due tassazioni imposte dal presidente Donald Trump sulle importazioni cinesi negli Stati Uniti potrebbero colpire l’economia americana più di quanto indicato dai dati commerciali ufficiali degli Stati Uniti. 

Secondo Washington, nel 2018 la quota di importazioni provenienti dalla Cina sul totale delle importazioni USA si attestava al 21,6% e, grazie ai dazi imposti durante il primo mandato Trump e mantenuti in vigore dal presidente democratico Joe Biden, sarebbe calata sino al 13,4% registrato nel 2024.

Una bella discesa, pari a 66 miliardi di dollari in valore, che però contrasta nettamente con quanto dichiarato nei dati ufficiali di Pechino, che mostrano come le importazioni dalla Cina sarebbero diminuite molto meno di quanto riportato nelle statistiche ufficiali. 

I dati cinesi raccontano infatti una storia diversa, con una diminuzione di appena il 2,5% e, addirittura, di una crescita del valore nominale delle merci esportate da 91,2 miliardi a 524 miliardi in sei anni.

Il punto chiave delle importazioni de minimis

Altra informazione rilevata dagli economisti della FED riguarda le importazioni che varcano i confini statunitensi sotto la categoria ‘de minimis’, ossia esenti da tassazioni in quanto di valore nominale inferiore agli 800 dollari.

Questo tipo di importazioni provenienti dalla Cina, che sono dirette al consumatore finale senza intermediazioni e che viaggiano spesso nelle stive dei voli passeggeri, sono aumentate di almeno il 50%, se non raddoppiate: una stima parla di un valore che avrebbe superato i $50 miliardi l’anno scorso

Secondo gli economisti della Federal Reserve Bank, proprio in questa enorme forbice di prodotti entrati all’interno della fascia ‘de minimis’ starebbero i volumi ‘mancanti’ di importazioni nelle stime del governo statunitense.

Il vero impatto delle tariffe sui consumatori americani potrebbe quindi essere ben più pesante di quanto preventivato: se l’amministrazione Trump dovesse – come annunciato – porre fine al trattamento favorevole riservato alle importazioni ‘de minimis’, ciò potrebbe portare ad una ricaduta immediata sui consumatori. A differenza del 2016, anno in cui la soglia per l’esenzione venne innalzata da 200 a 800 dollari, favorendone il boom, oggi gli acquirenti a stelle e strisce sono fortemente dipendenti da questi acquisti.

Gli stessi colossi dell’e-commerce come Amazon fanno arrivare sul suolo USA moltissimi prodotti del genere: insomma, è difficile pensare che gli americani vi rinuncino dall’oggi al domani, anche per una questione di alternative sul mercato. È però quasi sicuro che il ricarico verrà assorbito soprattutto dai clienti e più che dalle società produttrici o importatrici.

Tasse sulle navi cinesi

C’è però un’altra misure drastica che Washington intende introdurre, con il fine di arginare la supremazia cinese nella cantieristica navale mercantile

Anche in questo caso si tratta di una tassa che andrebbe a colpire le navi cargo, portacontainer e non, costruite in Cina: secondo la proposta, ad ogni passaggio nei porti statunitensi queste navi dovrebbero versare fino a 1,5 milioni di dollari, mentre gli armatori che hanno navi di costruzione cinese nella flotta dovrebbero versare 500mila dollari per ogni chiamata di una di queste imbarcazioni nei porti USA. 

Se messa in pratica si tratterebbe di una norma decisamente svantaggiosa per le navi uscite dai cantieri di Pechino: il problema, secondo gli analisti, è che nel breve e nel medio termine avrebbe conseguenze molto pesanti su tutto il commercio, consumatori finali compresi.

L’Office of The United States Trade Representatives collocava, nel 2023, la quota di share cinese del mercato delle costruzioni navali mondiali oltre il 50%, mentre nel gennaio 2024 Pechino risultava proprietaria di oltre il 19% della flotta mercantile mondiale e, come se non bastasse, è cinese il 95% dei container prodotti in tutto il mondo.

Un predominio destinato a non diminuire a breve, dato che oltre il 60% degli ordini di nuove navi (stando ad un report dell’istituto di credito olandese ING) – tra l’altro, rispondenti a parametri ambientali e tecnologici più avanzati – è stato effettuato presso cantieri cinesi e difficilmente saranno disdetti, visti gli investimenti che smuovono.

Le conseguenze sul commercio

Questa misura potrebbe avere diverse ripercussioni. Prima di tutto, moltissimi traffici, per evitare di essere tassati – d’altronde la proposte vorrebbe colpire proprio le flotte che trasferiscono merci importate dalla Cina usando il Messico come pivot – potrebbero sbarcare direttamente in Messico.

Tuttavia, se tutte le compagnie di navigazione con navi cinesi in servizio dovessero fare rotta sui porti messicani, come Manzanillo e Lazaro Cardenas, li manderebbero in tilt, replicando dinamiche simili a quelle vissute durante il Covid. L’infrastruttura portuale messicana non è infatti sufficientemente sviluppata per reggere un simile volume di smercio e non lo sono nemmeno i collegamenti retroportuali: secondo gli stessi operatori transfrontalieri, collasserebbe la rete ferroviaria merci.

C’è anche chi fa notare che, sul lungo termine, questa situazione favorirebbe gli investimenti cinesi sul Messico, portandolo a crescere come hub di transhipment a danno dei porti nordamericani. 

In ogni caso, nel frattempo le merci soffrirebbero di una supply chain congestionata e sovraccaricata dai costi extra provocati dal trasbordo su gomma e rotaia per varcare la frontiera con gli USA: come nel caso in cui le navi facessero scalo direttamente nei porti degli Stati Uniti, pagando delle tasse spropositate, i costi si riverserebbero sui consumatori.

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