Con l’amministrazione Trump si è registrata una svolta nella politica marittima mercantile USA, di fatto scomparsa dai radar negli ultimi decenni.
La Casa Bianca ha introdotto, parallelamente ai dazi commerciali sulle importazioni negli Stati Uniti, una nuova struttura tariffaria che impatta direttamente il settore navale globale: le nuove misure – che sembrano assimilabili a sanzioni, in quanto rivolte unicamente contro un obiettivo – mirano a penalizzare le navi costruite in Cina o legate a entità cinesi, facendo diventare sconveniente averle in flotta per armatori, compagnie di Shipping e spedizionieri.
Con l’entrata in vigore prevista per il 14 ottobre, questi nuovi dazi variano da 18 dollari per tonnellata netta fino a 120 dollari per container, con aumenti progressivi anno dopo anno.
L’obiettivo dichiarato è incentivare la cantieristica navale domestica statunitense e ridurre la dipendenza da Pechino, ma è innegabile che questa politica stia suscitando forti reazioni anche nello stesso settore marittimo e industriale a stelle e strisce.
Industria statunitense divisa
Le organizzazioni di settore americane si sono subito divise sull’efficacia di queste misure.
Un interessante spaccato si trova sulla stampa specializzata nordamericana, che riporta le diverse reazioni da parte delle associazioni di categoria.
Tanto per fare un quadro, il World Shipping Council ha criticato i dazi, sostenendo senza mezzi termini che aumenteranno i costi di spedizione e i prezzi al consumo senza favorire un rilancio concreto dell’industria navale USA, mentre l’American Association of Port Authorities ha messo l’accento sul rischio che le tariffe possano ridurre il volume di traffico nei porti statunitensi, con conseguenze dirette sul commercio internazionale e un impatto negativo su prodotti di largo consumo, prime fra tutte le automobili.
Mentre i più pensano che gli extra costi generati dai dazi saranno principalmente a carico dei consumatori statunitensi, la National Retail Federation teme che essi vengano invece trasferiti ai cargo owner, rendendo più onerosa la fase di importazione.
Una delle poche voci fuori dal coro è rappresentata dall’Alliance for American Manufacturing, che ha accolto favorevolmente le misure sostenendo che le pratiche commerciali sleali della Cina abbiano danneggiato per anni la cantieristica statunitense e che questa politica sia un primo passo per riequilibrare la competizione.
Quali impatti reali sull’industria navale cinese e asiatica?
Nonostante la pressione della politica economica USA, i cantieri navali cinesi continuano a mantenere la loro competitività. L’istituto bancario HSBC, per esempio, ha fatto notare la versione approvata di queste tassazioni, nettamente addolcita rispetto alla prima versione fatta circolare (che prevedeva una tassa da 1 milione di dollari per la compagnia di shipping e da mezzo milione per l’armatore ad ogni attracco in un porto degli Stati Uniti), renda meno rischioso per gli armatori non cinesi continuare a effettuare ordini in Cina. A supporto di questa tesi viene portata la recente decisione della Mediterranean Shipping Co (MSC), la più grande compagnia di trasporto container al mondo, di ordinare sei navi da 22.000 TEU presso Hengli Heavy Industry.
Sempre secondo HSBC, lo scenario che verrebbe a delinearsi, dopo un iniziale spavento, favorirebbe la ripresa degli ordini nei cantieri cinesi, fermo restando che permane un enorme divario di prezzo rispetto ai cantieri sudcoreani e giapponesi: infatti, il ridimensionamento delle sanzioni avrebbe eliminato un possibile vantaggio per i cantieri coreani, effetto inizialmente suggerito dalla proposta draconiana dell’USTR, il che permette a Pechino di mantenere la sua leadership nella produzione navale.
Le grandi compagnie di shipping: strategia e adattamento
Le principali compagnie di shipping hanno comunque adottato un approccio prudente ma pragmatico di fronte all’introduzione di queste tassazioni.
Il linguaggio vago utilizzato dall’USTR non aiuta difatti a levare i dubbi, rendendo difficile una valutazione chiara dell’impatto a lungo termine di queste misure. Inoltre, la gradualità dell’applicazione delle tariffe – con una fase di transizione di tre anni – permette agli armatori di adeguarsi progressivamente, tutto sommato senza stravolgere le strategie di flotta.
Quindi, malgrado le sanzioni USA sulle navi cinesi mirino dichiaratamente a rilanciare il settore marittimo americano, il loro impatto reale è tuttora incerto.
Da un lato, la competitività cinese resta solida e gli ordini nei cantieri asiatici continuano, dall’altro, il commercio globale potrebbe risentirne, con ripercussioni su costi e volumi di trasporto. Se il governo statunitense volesse davero ottenere un vero riequilibrio nel settore, cosa assai difficile anche immaginando una ricostruzione della cantieristica americana (basti pensare al nodo del costo del lavoro), dovrà probabilmente rivedere la sua strategia.